a cura della Prof.ssa Elena Pontiggia
Pochi artisti, tra quanti negli anni fra le due guerre si sono misurati con la dimensione monumentale, sono stati capaci, come Timo Bortolotti, di esprimersi con uguale efficacia anche in una dimensione molto ridotta. In pochi, come lui, far grande e far piccolo convivono così armoniosamente.
Bortolotti ha saputo scolpire un Cristo che domina le valli e testine di bimbo di pochi centimetri; farsi ammirare per opere celebrative e per figurette non più ingombranti di un fermacarte.
E tutto con una stessa tensione lirica, perché in realtà quello che gli interessava non era l’imponenza della materia, ma la spiritualità che la sua arte poteva infonderle.
Scultore di bambini, dunque, Timo Bortolotti: capace di catturare la beatitudine di un neonato che dorme e lo stupore di un bimbetto di pochi anni, la risata dell’infanzia e la grazia dell’adolescenza, un figlio abbracciato dall’amore di una madre e la tenerezza di due fratellini. Ma scultore anche di monumenti nel senso etimologico del termine: da “monere”, cioè ammonire, insegnare, ricordare, che è proprio il contrario della retorica.
Potremmo dire che Timo Bortolotti è stato un grande scultore di monumenti perché è stato anche un miniatore della scultura. Ed è stato un grande scultore di statue minime, senza mai perdersi nella leziosità, nel sentimentalismo, nella stucchevolezza, perché è stato anche uno scultore di monumenti. Sapeva che “uomo” deriva da humus, terra, e che, come diceva Platone, “tutto ciò che è umano non è degno di esser preso troppo sul serio”. Ma sapeva anche che l’uomo è creato a immagine di Dio, dunque ha un’innata nobiltà.
Timo Bortolotti è uno dei non pochi artisti italiani che l’Italia di oggi (con la sua politica anticulturale che si concentra solo sugli stessi, celebri autori stranieri) colpevolmente dimentica. Ma la sua scultura, a distanza di centrotrent’anni dalla sua nascita, è una lezione di umanità. E ha ancora molto da insegnarci.