Timo Bortolotti nacque a Darfo (Brescia) il 15 giugno 1884. Suo padre, Angelo, esperto conoscitore del marmo e della pietra camuna gestiva cave di “simona”, porfido e altri marmi in valle e fu certo questa visione frequente del taglio e della lavorazione della pietra a trasmettere al bambino un precocissimo amore, fisicamente e coloristicamente concreto, per la forma, per il volume e per lo spazio.
Timo aveva 8 anni quando muore papà Angelo e c’era bisogno di chi ne prendesse il posto. Eccolo così avviato agli studi quantunque, di tanto in tanto, gli rispuntasse l’ardire di tentar di darsi toutcourt a quell’arte che nel segreto del suo cuore, era al centro dei suoi sogni futuri. Tentò anche una breve fuga a Milano,per studiare con Cesare Tallone a Brera, ma fu ben presto di nuovo costretto a prepararsi sulle tecniche per estrarre al meglio i marmi della sua valle.
L’arte e la cultura crebbero così in lui come una segreta passione che un taccuino d’appunti ch’egli tracciò febbrilmente alla Biennale Veneziana del 1909, puntualmente ci documenta, inframezzando osservazioni critiche e cronistiche con deliziosi disegni.
Un evento di tragica e fulminea evidenza lo colpì nel 1910 quando la giovanissima moglie Irma Laini morì dopo aver dato alla luce la prima figliola Alba. Timo Bortolotti ne riportò un’ancora più spiccata inclinazione al silenzio, alla solitudine, all’introspezione mentre accudiva con sempre minor passione ai “lavori redditizi” e si sentiva sempre più vicino all’arte, alla necessità di rappresentare e di imporre allo spazio le cose, i volti, soprattutto quegli incantevoli bambini che saranno la tematica più dolce e più insistita della sua arte.
Se la morte della giovane moglie seguita alla improvvisa scomparsa del padre furono i grandi dolori della sua giovinezza, il campo in cui si temprò volontariamente, alla tecnica ed alla resistenza a tutto e a tutti, fu la guerra dove si comportò eroicamente, cadendo crivellato di colpi sll’Ortigara per difendere i suoi alpini. Gravemente ferito gli riuscì di trascinarsi dalla parte austriaca fin nelle nostre linee. I lunghi mesi di degenza negli ospedali segnarono profondamente la sua fibra impegnandolo in una lotta di volontà per reagire alla più temuta delle conseguenze delle ferite, la paralisi a una gamba. Contro tutte le aspettative dei medici, Timo guarì completamente al punto da poter riprendere, in seguito,qualsiasi ascensione alpina. Al suo ritorno, quella che era stata la sua passione segreta prese sempre più corpo e parte attiva nella sua vita.
Il secondo matrimonio con Giuseppina Sala, la nascita delle altre tre figlie – Gloria, Donatella e Milly – s’alternarono agli inizi pubblici della sua attività plastica, all’allestimento del suo primo studio di scultore a Brescia, in Palazzo Monti dove lavorò dal 1921 al ’24 a numerose opere, la più importante delle quali fu il monumento ossario del Tonale. L’attività espositiva delle grandi commissioni va da questa data, continuamente estendendosi: nel 1926 cominciano le sue presenze alle “intersindacali” e “sindacali” di Milano, Firenze, Napoli alle rassegne della “Permanente”. Frattanto aveva aperto uno studio a Milano, in Via Vivaio, accanto a Wildt, a Funi, a Marussig con i quali ultimi fondò una libera scuola d’arte.
Il 1930 è un anno fondamentale per Timo Bortolotti scultore: vince due premi alla Internazionale d’Arte Sacra di Padova, espone per la prima volta alla Biennale veneziana (con il bronzeo “ritratto del pittore Arturo Tosi”). Alla massima rassegna internazionale italiana prenderà parte attiva altre quattro volte, nel 1934 (col ritratto in terracotta di Aglae Sironi); nel 1936 (con due opere, “Riflessi” bronzo e “Pietà” marmo); nel 1940 (“Paulucci de Calboli” cera) ed infine nel 1942 quando presenterà un gesso dall’allusivo titolo “Vittoria tra i vinti”.
Contemporaneamente le tappe più significative dell’anteguerra sono la sua partecipazione alle Quadriennali romane, ai concorsi ed alle esposizioni più importanti italiane e straniere le cui date salienti sono il 1935 quando conseguì il Premio Savoia Brabante (che avrebbe di nuovo vinto nel 1940), nel 1936 quando ebbe un riconoscimento d’onore a Budapest e nel 1937 quando conseguì il Grand Prix all’Expo di Parigi (unitamente ad Arturo Martini e Marino Marini), riconoscimento quest’ultimo, che gli valse un coro di ammirate adesioni, di crescenti inviti a “personali” e di commissioni per ritratti e monumenti di varia destinazione. Di questi ultimi, il più significativo dopo quello del Tonale (che venne restaurato e completato dopo il ’35) è quello a “Cristo Re” che gli venne commissionato nel 1920 e messo in loco l’anno successivo.
Bortolotti ideò qui un complesso monumento formato da una chiesetta piccola ma possente e monolitica, nella sua pietra viva con un largo cornicione di porfido aggettante: sopra si sarebbe alzata – per quasi nove metri – la statua del Cristo Re, le braccia aperte verso la valle.
A sottolineare questo felice momento creativo, ecco la serie davvero imponente delle citazioni e delle recensioni della critica, con pagine bellissime di Carrà, Carpi e Antonio Baldini (1935), di Michele Biancale, Attilio Crespi, Franco Ciliberti, Enrico Somarè, Carlo Tridenti, i primi in occasione dell’assegnazione del suddetto Savoia Brabante e della “personale” del dicembre ’35 alla Galleria Dedalo, il secondo con l’occasione di una mostra romana dell’artista in cui spiccavano opere come “Fratelli Facchi” e “Riccioli neri”.
Tra le sue sculture più significative di quegli anni, bisognerà ricordare “Nike”, il “Dioscuro”, “Figlia di Maria”(1937), “Ragazza lombarda” (1939), Treccine bionde”. “Il pescatorello”, “L’annunciazione”, “Sentinella alpina” (esposta alla mostra degli artisti invalidi e mutilati di guerra presso la Galleria milanese Gian Ferrari, 1938) e una serie di rilievi e bassorilievi per monumenti funebri tra i più prestigiosi della sua arte. Quel decennio vide, del resto nascere la sua amicizia con artisti come Arturo Martini e Mario Sironi, come Carpi, Carrà e De Grada, per non parlare che dei più prestigiosi.
Alternando i soggiorni a Milano con quelli della casa di Capodilago (un incantevole paesino proprio sulla verticale del paese natale, Darfo) nel cuore della vecchia Milano (corso Garibaldi) e in quello tanto caro della Val Camonica, Timo Bortolotti continuò ad operare, anche nella travagliata, ardua situazione della seconda guerra mondiale, contrassegnata dalle rischiose pagine di guerra partigiana in valle.
Poi il dopoguerra e una crescente voluta solitudine artistica, segnata da sempre più rare comparse espositive e da una continua ma appartata opera di studio, lassù tra i suoi monti, intento a modellare i volti delle nipotine o gli eterni drammi del lavoro e della civiltà umana.
Si spense all’ospedale milanese di Niguarda il 15 ottobre 1954 e fu sepolto nella tomba di famiglia, lassù nel cimitero di Angolo, dove gli vennero tributate commosse onoranze e dove una strada ricorda tuttora il suo nome di patriota e d’artista. Dopo la sua morte, sue sculture sono comparse in mostre ed esposizioni collettive.
Giorgio Mascherpa